OGNI STORIA D'AMORE È UNA STORIA DI FANTASMI. VITA DI DAVID FOSTER WALLACE di D. T. Max: aprire le finestre sbagliate


C'era una volta il secchione della classe, un soggetto strano, versato in logica e matematica, che decise di fare lo scrittore. E divenne David Foster Wallace. 
Potrebbe iniziare così, Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi di D.T. Max, una biografia scorrevole, scritta come un romanzo, nel senso che non soffre della pedanteria di tante biografie. Qui gli avvenimenti della vita di Foster Wallace sono narrati con il ritmo e le modalità di un racconto, spesso secondo un punto di vista che sembra quello del 'narratore onnisciente', senza che la narrazione sia appesantita con note a piè di pagina. Solo al termine del libro troviamo i rimandi alle fonti segnalati con diligenza pagina per pagina e comprendiamo che il narratore anziché essere onnisciente ha letto un gran numero di fonti scritte e consultato un gran numero di persone.




Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi dunque è il romanzo il cui protagonista è quello straordinario scrittore che fu David Foster Wallace. La storia di un ragazzo particolarmente dotato e sensibile, che soffre di depressione fin dalla gioventù e diventa un autore incredibilmente talentuoso. Depressione e scrittura: questi, si può pensare, sono i due poli tra cui oscilla la vita di Foster Wallace raccontata da D. T. Max (il tizio dal nasone nella foto sopra).
La storia è quella di un outsider, ma anche del primo della classe, quello che secondo i luoghi comuni dovrebbe diventare uno scienziato di chiara fama, tutto genio e sregolatezza. E che invece diviene uno scrittore. Per molti quello più rappresentativo della sua generazione. Proprio in ciò sta il fuoco che tiene viva la biografia: un'intelligenza votata alla logica e alla matematica che si dedica alla narrativa con risultati stupefacenti.

Un gran numero di pagine è, ovviamente, dedicato al processo di creazione di Infinite Jest (ne ho scritto in due parti, qui e qui), l'opera che fa da perno a tutta la sua produzione letteraria. 

Riporto qualche accenno che mi è sembrato interessante.
A pagina 292 D. T. Max descrive come Wallace ritenesse che in Infinite Jest po' di innovazione andasse bene, mentre troppa rischiava di perdere il lettore per strada; e che se, d'altra parte, la realtà contemporanea è frammentaria, allora anche il romanzo che la riflette o la ricrea deve esserlo. Aspetti dicotomici che, a mio parere, in Infinite Jest si ritrovano.
A pagina 303, durante la lavorazione di Infinite Jest, Wallace pare intenzionato a instaurare una sorta di più tradizionale connessione lettore-autore. Forse per porre rimedio a una sua inclinazione testimoniata dalla sua compagna Mary Karr a pagina 235: “Era talmente preoccupato di sfoggiare la sua intelligenza da non riuscire a comunicare un bel niente”.
A proposito della parte conclusiva di Infinite Jest, a pagina 329 D. T. Max spiega come Wallace fosse ben deciso a lasciare il suo lavoro senza finale e senza risposte, nel senso che le risposte stavano dopo ultima pagina e che il romanzo doveva proseguire nella mente dei lettori, in quanto narrazione assimilabile ad un 'ampio arco', estranea al modello tradizionale del 'triangolo di Freytag' (vedi qui, ad esempio).

A pagina 337 ci viene raccontato come la casa editrice intuì di puntare sulla mole spropositata del libro per il lancio pubblicitario, facendo intendere che leggerlo sarebbe stata una una sfida per l'intelligenza del lettore e del critico. Una scelta promozionale che mi pare abbia avuto parecchio successo...
Tuttavia a pagina 359 Wallace intuisce che, malgrado egli speri siano in tanti coloro che rileggeranno Infinite Jest, di fatto molti di più nemmeno ne termineranno la lettura. Pare realizzarsi il timore dello scrittore che Infinite Jest non sia inteso come 'intrattenimento fallito', bensì, più semplicemente, come riuscito intrattenimento intellettuale. Quella di Wallace è la “paura di essere solo un intrattenitore di altissimo livello” (pagina 378).




D. T. Max tratta l'ultimo anno di vita - quello in cui torna più feroce che mai la malattia che condurrà al suicidio Foster Wallace - con ritrosia, con un rispettoso pudore verso lo scrittore che non disturba affatto, dal momento che - è implicito - certi aspetti della sua vita non è possibile conoscerli a fondo e trattarli col giusto rispetto. Talvolta è meglio scrivere per sottrazione che rischiare di aggiungere dettagli infondati.

I
n conclusione,  il ritratto che si ricava di David Foster Wallace è quello di un uomo che, a prescindere dall'intelligenza e dal talento, è stato un esempio di artista autentico, nel senso soprattutto di individuo speciale che si fa carico di sofferenze e dei dubbi di tutti i suoi simili. A tratti viene da pensare che parecchi problemi dell'autore americano traggano origine dalla sua natura di collettore di ansie, di sofferenze, di solitudine che trovano uno sfogo disperato nel consumismo e nell'intrattenimento.

Di solito si è abbacinati dall'intelligenza e dalla perizia tecnica di David Foster Wallace, ma il lato da riscoprire e da tenere in maggior conto è questo: che quando egli con le sue narrazioni critica la società ciecamente consumistica e ne mostra le vittime (lui stesso per primo), ci fa intravedere anche una luce perché le sue storie e i suoi ritratti implicano sempre una morale, non solo una descrizione della società. 

Non per nulla Foster Wallace era un ammiratore di Dostoevskij e a pagina 333 lo vediamo trovare dei parallelismi tra la sua vita e quella dello scrittore russo. Il collega italiano Di Paolo lo definisce “il venerato e poco letto David Foster Wallace”, per il quale compito dell'opera d'arte letteraria è quello “di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l'oscurità dei tempi”.

La parabola di David Foster Wallace, con la sua spaventosa intelligenza, la sua angoscia e il suo coraggio, mi ha ricordato i versi di Claudio Lolli che in Ho visto anche degli zingari felici cantava:
i poeti ci fanno paura

perché i poeti accarezzano troppo le gobbe…
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.

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