LETTERE SULLA CREATIVITÀ di F. Dostoevskij: un populista dei suoi tempi? No, inattuale ora ed allora.



Dostevskij populista? Semmai il ritratto sulla copertina di Lettere sulla creatività può far pensare a un hipster ante litteram dalla barba fluente. Però l'insigne scrittore non è vestito come un fesso, ergo non può essere un hipster. Lo fosse stato avrebbe scritto delle lettere sulla cretinità.

Oltre a questa sciocchezza introduttiva, può darsi che abbiate letto l'altra amenità con cui ho introdotto su Facebook questo post: “FLAVIO BRIATORE, intervistato da EUGENIO SCALFARI, ha dichiarato che "DOSTOEVSKIJ è il più grande perché spalanca le porte all'infinito che abbiamo dentro. Peccato che fosse un fottuto populista". Condivido solo la prima parte. Le LETTERE SULLA CREATIVITÀ contribuiscono a spiegare perché”.

Naturalmente Briatore – almeno che io sappia - non ha mai dichiarato nulla di simile su Dostoevskij e dubito fortemente che l'abbia mai letto. Però chiacchierando del più e del meno con Scalfari potrebbe aver pronunciato la frase sopra per farsi bello col fondatore di Repubblica.

Bando alle ciance, da qui in poi inizio a fare sul serio, per quel che posso. Dostoevskij senz'altro non era un populista. Piuttosto, per certi versi, 
era un reazionario, come si vedrà qui di seguito. Ma non escludo che Briatore o Bruno Vespa o Ezio Mauro o Scalfari e altri sapienti dei giorni nostri possano rubricare certi suoi pensieri come populisti, visto quanto l'appellativo populista è usato e abusato dalla stampa italiana per designare chiunque esprima malcontento in maniera radicale rispetto all'attuale situazione politico-economica.


A prescindere da ciò, leggere Dostoevskij, che si tratti di narrativa o di saggi, è come andare sulle montagne russe, a tratti si tocca il cielo, un momento dopo si precipita negli abissi più profondi.

La corrispondenza di Dostoevskij è ricca di spunti e interessi, com'è facile immaginare.
Vi si trova il racconto di prima mano della condanna-farsa subita per volere dello zar: prima a Dostoevskij, insieme ad altri, fu letta la condanna a morte; poco dopo, al momento dell'esecuzione, quando i primi tre condannati erano già al muro in attesa dello sparo fatale, fu letta loro la vera sentenza, cioè lavori forzati.
In altre missive Dostoevskij afferma di temere di non sapersi esprimere come vorrebbe. Che l'autore di Delitto e castigo scrivesse scrivesse male è quasi un luogo comune, ma è egli stesso ad affermare, a proposito de I demoni: “è fuori di dubbio che lo scriverò male, giacché io (…) ho immancabilmente scelto dei temi superiori alle mie forze”. In qualche altra lettera, invece, ricorda di essere obbligato a scrivere troppo rapidamente, senza neppure rileggere, perché pressato dalle scadenze.


Due sono i fuochi che ardono impetuosi in queste Lettere sulla creatività.

Il primo fuoco acceso da Dostoevskij consiste nella denuncia dell'abbandono dell'ideale cristiano prima da parte dell'Europa, poi da parte della Russia.

Per Dostoevskij la sventura dell'Europa è l'aver perduto Cristo e poi aver deciso di poter fare a meno di Cristo. Basta vedere il tentativo di concretizzare i fondamenti morali del positivismo nella Comune di Parigi, che, nota l'autore de I demoni, è servito solo a smarrirsi “dietro pii desideri e ideali”.


Secondo Dostoevskij tolto l'ideale dell'immortalità 
per l'uomo tutto si ridurrebbe nel vivere nel tempo dato, votandosi all'autodistruzione. “Del resto", conclude, "per quanto se ne scriva, non si riesce ad arrivare a una soluzione”. Intanto i progressisti, i positivisti, i nichilisti, insultano Cristo senza chiedersi cosa mettere al suo posto.
Proprio quest'ultimo interrogativo che si pone Dostoevskij - con cosa sostituire Cristo - mostra una sua attualità, dato che ancora oggi non ha trovato un'autentica risposta. Senza equivocare, ritengo non ci sia bisogno di essere credenti per ritenere insufficiente fondarsi solo sulla ragione, sul calcolo, sul mero materialismo o addirittura sull'abitudine. Col rischio, semmai, di sostituire la fede cristiana con un'altra fede di stampo scientista. Una risposta potrebbe venire forse da un umanesimo più maturo e consapevole affiancato da una ragione da applicare senza steccati e pregiudizi? Facile, ma solo a dirsi. Basta, non esorbito oltre.



Il secondo fuoco, strettamente collegato al primo, che dà vita e calore a queste Lettere sulla creatività sta nella difesa dell'idea di popolo russo. O meglio, dell'ideale di popolo russo. Un punto che lo accomuna a Tolstoj (a proposito dell'autore di Guerra e pace ne ho accennato qui).
Per Dostoevskij “coloro che non comprendono il popolo devono ormai inevitabilmente ritrovarsi in compagnia dei giocatori di borsa e degli ebrei, ed ecco quale sarà il final del nostro pensiero 'progressista'.
I progressisti/nichilisti? Per l'autore russo “è tutta gente sostanzialmente astratta, gente la cui cultura e la cui adorazione per l’Europa consiste semplicemente in uno “sconfinato amore per l’umanità”, ma solo se considerata in generale. Ma se poi l’umanità si incarna in un uomo concreto, in una persona, allora essi non sono capaci di tollerarla, anzi non possono starle accanto senza provare dell’avversione per essa (…) Si tratta di gente profondamente astratta dalla vita, inaccessibile alla sofferenza, che trascorre la sua esistenza in una sostanziale imperturbabilità d'animo”.
Fautori di un “democraticismo intellettuale” che “ha fatto causa comune con gli aristocratici contro il popolo”, in quanto “i nichilisti vanno verso il popolo, ma non per imparare da lui, bensì per istruirlo, per indottrinarlo dall'alto, per giunta disprezzandolo”.
L'autore de I fratelli Karamazov conclude: “Preferisco restare con il popolo, giacché solo da esso ci si può aspettare qualcosa, e non certo dall'intelligencija russa, che nega il popolo e non è neanche intelligente”.

Dostoevskij nella maturità si spostò su posizione decisamente reazionarie, lo si desume anche da questi brevi estratti. Va però evidenziato che, come spesso accade, laddove la pars costruens della sua teoria risulta traballante, la pars destruens sovente coglie nel segno. Sono mestamente attuali le sue critiche verso quelle élite di intelletto e di ceto che con grandi proclami di democrazia, ma in realtà sotto il manto del paternalismo, disprezzano il popolo quale massa informe priva di intendere e di volere. Di 'democraticismo intellettuale' anche oggi sono pieni i giornali, l'etere, il web. E di gente 'inaccessibile alla sofferenza, che trascorre la sua esistenza in una sostanziale imperturbabilità d'animo', colma di "uno 'sconfinato amore per l’umanità', ma solo se considerata in generale" sono piene le nostre stanze del potere.
Sarebbe così bello se l'autore di Memorie del sottosuolo, almeno in questo, fosse ormai datato...

Dunque, Dostoevskij, che, come si è visto, di malcontento ne coltivava non poco, era un populista dei suoi tempi?
Innanzitutto, per rispondere, va circoscritta a dovere la nozione. Il populismo è, Treccani dixit: “1.Movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra l’ultimo quarto del sec. 19° e gli inizî del sec. 20°; si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria (culminata nel 1881 con l’uccisione dello zar Alessandro II), un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, spec. dei contadini e dei servi della gleba, e la realizzazione di una specie di socialismo rurale basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. 2. Per estens., atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”.
Secondo tale definizione, Dostoevskij non poteva certo essere populista. Anzi, era assai critico con i progressisti/populisti del suo tempo, come Herzen, ad esempio, di cui ne Il diario di uno scrittore, compone un ironico ritratto come ricco gentiluomo sostenitore delle altrui rivoluzioni.
Dostoevskij parteggia per il popolo, ecco cosa lo accomuna al cosiddetto populismo. Ma, puntualizza l'autore russo, egli ama il popolo davvero, senza infingimenti, senza volerlo trasformare in qualcos'altro.

In conclusione, da una parte Dostoevskij è indubbiamente imbarazzante quando denigra gli ebrei e quando propone il suo – bislacco – panslavismo universale, per cui l’uomo russo sarebbe il rappresentante più appropriato di umanità, dall'altra persino da questi argomenti che oggi è fin troppo semplice definire deliranti emerge qualcosa di buono. Dostoevskij stigmatizza gli ebrei in quanto impiegherebbero (tutti quanti?! verrebbe da chiedergli) il mero calcolo anziché il cuore, ma suo intento profondo è quello di colpire dei rappresentanti di una umanità disumanizzata e calcolante. La slavofilia dell’autore russo, invece, per cui l'uomo russo è il prototipo positivo di umanità in quanto ancora capace di amore, al contrario degli europei ormai schiavi della razionalità calcolante (tipica anche degli ebrei) è, a ben guardare, l’esito deviato della sua tendenza ad un universalismo umanitario di stampo quasi religioso. Un universalismo il cui principio supremo, trascendente infine persino i concetti politici o filosofici, è nulla più dell'amore.
Banale? Più probabile che sia banale come, in maniera grossolana, sto descrivendo il pensiero di Dostoevskij.

A mio avviso qui affiora la dialettica che ha reso universale e immortale la letteratura russa del XIX° Secolo, e cioè quella contrapposizione tra ratio scientifica di matrice europea e immanenza/trascendenza tipica del mondo russo ancora premoderno. Un confronto accesissimo nell’impero russo investito dalla modernizzazione importata dall’Europa.

Lo storico inglese Hobsbawn si è chiesto come possa essere avvenuta una tale fioritura di talenti artistici 
in campo letterario e musicale nell'arretrata Russia ottocentesca. La risposta potrebbe risiedere, almeno per quanto attiene alla letteratura, in tale dialettica e nella conseguente necessità da parte della cultura russa di fare i conti con sé stessa per capire se e quanto conservare delle proprie radici oppure se diventare integralmente cultura europea, e in tal caso come diventarlo
Un fenomeno che, tutto sommato, in forme diverse si è sempre verificato e tuttora ha luogo in ogni terra di confine, in ogni regione conquistata o colonizzata (con le armi o con il cosiddetto soft power). Una dialettica dunque che oggi vediamo in atto anche più di allora, e che rende sempre attuale, sempre insuperata, quella grande letteratura.



Non è assolutamente un caso che questa dialettica tra ragione europea e naturalità russa sia anche al centro delle riflessioni di Tolstoj (nella foto a colori qui sopra), come non è un caso che per strade diverse i due più grandi autori russi siano giunti a rifugiarsi - giusto o sbagliato che fosse - nel seno del cristianesimo, Dostoevskij attenendosi alla fede ortodossa, Tolstoj promotore di una fede propria filtrata dal suo ego incontenibile.
Entrambi gli scrittori furono collettori delle antinomie del proprio tempo. Se c'è una cosa che accomuna Tolstoj e Dostoevskij questa è quella che Igor Sibaldi, nella mirabile introduzione al Meridiano Mondadori dedicato a Tutti i racconti di Tolstoj, ha definito la “lunga lotta di uno scrittore contro la storia e la cultura che alla storia obbedisce (e si badi, non vi è scrittore che si possa prendere sul serio, che non avverta in sé stesso la necessità di questa lotta disperata)". Ovvero l'inattualità del proprio pensiero rispetto alle storture della propria epoca. L'essere al di là del proprio tempo. Prerogativa di pochi, il cui privilegio è saper insegnare qualcosa anche a chi viene secoli dopo.

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