1981: IL DIVORZIO FRA TESORO E BANCA D'ITALIA di D. Dalla Bona: quando le riforme nuocciono


Questo 1981: il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia di Daniele Dalla Bona racconta una storia nota, o meglio, che dovrebbe essere nota. Ma non lo è affatto. Se lo fosse probabilmente sarebbe ben diversa la generale percezione di certi luoghi comuni economici .

Col cosiddetto 'divorzio' tra Banca Italia e Ministero del Tesoro, sancito in maniera consensuale tra l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, la Banca Centrale italiana non fu più costretta ad acquistare in asta primaria i titoli invenduti. Fu una 'riforma' profonda, sancita con nulla più di uno scambio di comunicazioni tra i due alti funzionari, per certi versi inconsueta sotto il profilo formale, ma, a quanto pare, legittima. Benché una bella parte dell'arco parlamentare fosse contrario o molto perplesso.


Di fatto ciò ebbe luogo in maniera graduale, poiché la riforma data luglio 1981, ma fino al 1988 la Banca d'Italia continuò ad acquistare sul mercato primario tutti i titoli invenduti del Tesoro che essa voleva al fine di mantenere il massimo tasso di interesse entro i limiti nei quali si era obbligati dall'adesione allo SME, il Sistema Monetario Europeo che fu una sorta di precedente dell'euro.

Cosa cambia? Moltissimo. Fino al divorzio i tassi d'interesse pagati dallo Stato per finanziare le proprie spese erano bassi perché calmierati dall'azione congiunta di Tesoro Banca Centrale. Dopo il divorzio i tassi salirono alle stelle perché divennero oggetto di libera trattativa sul mercato.
Per questo negli Anni Settanta, malgrado un tasso di inflazione altissimo, il debito pubblico italiano si mantenne grossomodo stabile (60% rispetto al PIL) mentre negli Anni Ottanta, a seguito di tale riforma, l'insostenibile spesa per interessi provocò la crescita esorbitante del debito pubblico. Quel debito pubblico che da allora ci ritroviamo sul groppone e di cui l'Italia viene quotidianamente incolpata.


Ebbene, quelle spese per interessi che avrebbero raddoppiato il debito pubblico italiano fortissimamente le vollero Ciampi e Andreatta (e tutti i loro numerosi sostenitori). Perché? Perché il peso del debito futuro da interessi avrebbe costretto, si pensava, le forze politiche a ridurre l'intervento pubblico in campo economico
, ovvero a tagliare il welfare e disattivare le politiche di pieno impiego. In altre parole a tagliare i redditi dei cittadini. In definitiva l'obbiettivo della riforma era quello di togliere di mezzo lo Stato come attore e basta, in quanto a riforma compiuta non avrebbe avuto modo di autosostenersi. Non avrebbe più potuto essere un attore economico e nemmeno politico, dal momento che uno Stato senza mezzi difficilmente potrà attuare i propositi sanciti dalla Costituzione, tanto per fare un esempio. Le forze politiche però sprecavano risorse pubbliche in malversazioni, corruzione etc. Ebbene sì, lo facevano nel 1980, nel 1960, nel 1990 e continuano a farlo anche ora. Credo si possa affermare senza tema che avere sottratto allo Stato italiano autonomia sotto il profilo economico gravandolo di spese da interessi non ha sortito alcun effetto correttivo nei confronti di certo malcostumeCiò che invece vale oggi come ieri, a quanto pare, è che i diritti e le garanzie costituzionali vanno snelliti. Possibilmente senza dichiararlo in maniera esplicita.

Le ragioni? Perché a qualcuno (pochi, molto pochi) fa comodo. E per motivi schiettamente ideologici. Era finita l'era delle politiche keynesiane, che in Italia, checché se ne dica, ci fecero superare quasi indenni gli Anni Settanta delle prime grandi crisi economiche. Era arrivata l'ora del neoliberismo di Thatcher e Reagan. Lo Stato divenne il nemico che sprecava, mentre il libero mercato fu innalzato ad autonomo risolutore di ogni problema socio-economico.


Questa prima riforma fu la pietra angolare che introdusse il neoliberismo in Italia. Il successivo perfezionamento fu l'adesione al Trattato di Maastricht. Puntualizzo: il neoliberismo può piacere, come in effetti a molti piace, ma che lo si dichiari senza infingimenti oppure, per altri versi, si cerchi almeno di acquistare la consapevolezza di essere neoliberista.

Le risultanze economiche e un minimo di cognizione storica ci dicono che tutte queste tanto decantate riforme non apportarono benefici ai comuni cittadini, che senz'altro non permisero di impiegare al meglio le risorse umane e materiali disponibili  e che i mali endemici dell'Italia rimasero più o meno tali.

Ecco, in questo saggio di Daniele Dalla Bona c'è questo e tanto altro, più approfondito, ricco di dati, di prospetti e di rimandi documentali. Una ricostruzione della recente storia economica d'Italia che dovrebbe fare drizzare le antenne e i capelli, ma non lo fa perché quasi nessuno la conosce, anche solo a grandi linee.


Un neo da evidenziare in questo saggio c'è e va segnalato: Dalla Bona non spiega che si giunse all'attuazione del divorzio anche a causa della situazione internazionale contingente. Thatcher e Reagan avevano avviato le loro politiche di alti tassi d'interesse dei titoli di stato americani e inglesi, che dunque divennero immensamente più appetibili dei poco remunerativi titoli del debito italiani. Quindi il divorzio, almeno temporaneamente, poteva starci. Farne una misura strutturale, tuttavia, ebbe conseguenze nefaste che ancora stiamo scontando. Ad ogni modo 1981: il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia avrebbe dovuto renderne conto.

Oltre al danno fu aggiunta la beffa di santificare Andreatta e Ciampi quali emeriti statisti, loro che fecero della dismissione dello Stato il loro obbiettivo.

Conclusione: le riforme non sono un bene di per sé e alcune addirittura nuocciono, e parecchio.

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